Sessant’anni fa, la serata del 9 ottobre 1963 fu sconvolta dal “Disastro del Vajont”, un capitolo oscuro e straziante della storia del Novecento, un evento inciso indelebilmente nella memoria collettiva: al confine tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto, nel neo-bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont, una frana precipitò dal soprastante pendio del Monte Toc nelle acque del bacino alpino realizzato con l’omonima diga.
In un’Italia che viveva l’effervescenza del miracolo economico, la maestosa diga del Vajont incarnava il sogno di un progresso sostenuto dalla tecnologia, destinato a soddisfare il crescente fabbisogno energetico delle città e dell’economia italiana, in rapida espansione.
Un allarme annunciato
I lavori della diga del Vajont erano stati avviati nel gennaio del 1957, nonostante le insistenti preoccupazioni dei residenti, che erano consapevoli della fragilità di quelle imponenti rocce e i numerosi allarmi lanciati dalla giornalista Tina Merlin, che a più riprese aveva denunciato tale pericolosità. Nel 1959, a lavori quasi conclusi, una frana nei pressi di Pontesei aveva spinto gli esperti a effettuare ulteriori indagini geologiche per approfondire la conoscenza dell’area. Le indagini riconobbero l’esistenza di un’antica frana sul versante settentrionale del monte Toc, proprio sopra il bacino artificiale.
Tuttavia, all’epoca, la normativa non richiedeva una valutazione della stabilità dei pendii delle dighe in costruzione, e così i lavori proseguirono con le prove di riempimento della diga. Tale scoperta fu subito presa in considerazione dai responsabili dell’opera, almeno come ipotesi da verificare con altre ricerche e indagini. Purtroppo la consulenza, durata fino al 1961, non impedì che dopo varie vicissitudini si consumasse la tragedia.
Verso la ricostruzione: il ruolo dell’ISES
Il disastro e la conseguente ricostruzione della valle del Vajont, si intrecciano con l’attività dell’ISES – Istituto dello sviluppo edilizio sociale, di cui l’ACS custodisce il fondo.
Fondato con la legge n.133 del 15 febbraio 1963, (sottoposto alla vigilanza del Ministero dei lavori pubblici), l’ISES ha svolto un ruolo cruciale e significativo nello sviluppo e nella promozione dell’edilizia sociale nel paese: si prefiggeva l’obiettivo di realizzare progetti abitativi adeguati, che garantissero l’accessibilità e la qualità abitativa a coloro che ne avessero bisogno, non solo attraverso la costruzione di nuove residenze, ma anche con la ristrutturazione degli edifici esistenti e la fornitura di servizi a supporto delle comunità.
Nelle vicende del Vajont l’ISES ricoprì un ruolo determinante nell’ambito dei programmi di edilizia sociale. Di fatto la fase di ricostruzione del Vajont fu un processo complesso, che coinvolse diverse organizzazioni, enti governativi e professionisti per garantire la riabilitazione. Nello specifico, l’architetto, urbanista e docente Giuseppe Samonà partecipò all’indagine sociologica che seguì la tragedia, avente come obiettivo l’analisi delle implicazioni sociali, culturali e psicologiche che il disastro ebbe sulla comunità locale, oltre che le dinamiche politiche ed economiche.
Grazie a questa relazione e alla conservazione delle carte della Direzione Tecnica dell’ISES, oggi è possibile approfondire ulteriormente molti degli aspetti che in quegli anni riguardarono il modello di reinserimento infrastrutturale e i servizi messi in atto subito dopo il disastro, tali da non essere connotati come provvisori, ma finalizzati alla ricostruzione, nell’impegno di attuare un piano di opere di urbanizzazione per ridare alla popolazione quella normalità perduta.
Il fondo ISES conservato presso l’Archivio centrale dello Stato è costituito da 1481 bb. si presenta come una raccolta organizzata di corrispondenza, fotografie, registri contabili, relazioni, disegni, e altri materiali di valore amministrativo e tecnico. Il Fondo ISES è attualmente oggetto d’inventariazione informatizzata, finanziata grazie ad un progetto Art Bonus del valore di 15.000,00 euro.
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Progetto costruzione dei Carabinieri e Guardia di Finanza di Longarone, Fondo ISES, b.663